Siamo tutti nomadi: dal mito antico all’età contemporanea, la storia dell’umanità è una storia di viaggi, peregrinazioni, scoperte e odissee. Lo hanno cantato i poeti, lo narrano i mass media, lo descrivono gli artisti attraverso la loro opera. Questo fenomeno, che negli ultimi trent’anni ha assunto dimensioni massicce che hanno trasformato profondamente gli equilibri internazionali, l’aspetto delle città e le relazioni tra i popoli, è al centro della ricerca creativa di molti artisti contemporanei.
L’artista albanese Adrian Paci (Scutari, 1969) lo ha affrontato lungo tutto l’arco della sua ricerca. Quando, alla fine degli anni Novanta, durante il periodo dell’anarchia albanese fu costretto a riparare in Italia con la sua famiglia, produsse dei video titolati Albanian stories, dove le sue bambine, nel loro linguaggio innocente e senza veli, raccontavano l’esperienza della guerra e la differenza sociale ed economica nella quale versava la loro famiglia in Italia.
Altre sue opere fotografiche, appartenenti al ciclo Back Home, del 2001, rappresentano gruppi famigliari di immigrati albanesi ritratti all’interno di quinte dipinte, che rappresentano gli ambienti domestici abbandonati in patria: malinconica e struggente, questa opera si collega alla performance realizzata dall’artista stesso nel medesimo anno dal titolo Home to go: qui, Adrian Paci cerca di sostenere sulle sue spalle il peso di due ali che in realtà sono un tetto di mattoni. L’iconografia cui rimandano le diverse pose dell’artista richiamano la passione di Cristo: la ricerca della casa può essere per molti motivo di tragedia e di sofferenze.
Nel 2007, il suo video Centro di permanenza temporanea, vincitore di premi e riconoscimenti, ha raccontato in modo ancor più drammatico e puntuale il fenomeno delle migrazioni contemporanee: un gruppo di uomini, donne e bambini di diverse etnie è seguito dalla telecamera mentre in un piazzale di aeroporto cammina e poi sale su una scala d’aereo: sembrerebbero essere in procinto di partire, ma la telecamera, soffermandosi sui loro volti e poi zoomando all’indietro, ci mostra la dura verità: la scaletta non porta ad alcun aereo e queste persone sono costrette ad attendere, tra il cielo e la terra, senza partenze e senza arrivi. Un’odissea statica e stagnante.
Altri artisti hanno raccontato la dispersione e le odissee dei popoli dai loro Paesi di origine durante le guerre: l’artista palestinese Emily Jacir (Betlemme, 1972) nel 2001 ha creato una tenda di dimensioni ambientali sulle cui pareti ha cucito i nomi di 418 villaggi palestinesi distrutti e occupati da Israele nel 1948.
Lo ha chiamato Memorial, Monumento, evidenziando la comune fragilità della delicatezza di cui è fatta l’opera, con il tessuto e i fili ricamati, e dell’evanescenza della memoria storica che abbiamo delle tragedie dei popoli e dei civili durante le guerre.
Anche il giovane artista Cristiano Carotti (Terni, 1981), che lavora principalmente la ceramica creando grandi installazioni, ha dedicato un recente lavoro al tema dell’immigrazione, in particolar modo agli sbarchi in Sicilia, raccontandoli nella mostra “Stessa spiaggia stesso mare”.
Attraverso il mito di Scilla e Cariddi, i “mostri” che vengono dal mare, egli personifica le paure del diverso e la rabbia degli italiani nei confronti dei migranti, mentre un pedalò armato, simbolo dell’italiano al mare, rappresenta lo “strumento di autodifesa popolare”, chiaramente goffo, inadatto e minaccioso come il razzismo e il populismo.
Ancor più radicale, in quanto coinvolge direttamente futuri migranti, è stato il progetto dell’artista guatemalteca Regina José Galindo (Città del Guatemala, 1974) che nel 2007 tiene un vero e proprio “corso di sopravvivenza” per 10 uomini e donne che cercheranno di spostarsi illegalmente dai loro Paesi agli Stati Uniti: una serie di lezioni pratiche, documentate fotograficamente, che l’artista ha voluto pubblicare per far capire cosa siano disposti a fare i migranti, fino a rischiare la vita, per cercare una nuova dimensione di vita negli Stati Uniti.
Sceglie invece il linguaggio innocente dei bambini, e la loro capacità di giocare, sempre e in ogni condizione, l’architetto e attivista americano Ronald Rael che in collaborazione con l’architetto e esperta di design Virginia San Fratello ha realizzato nel luglio 2019 un dondolo rosa fluorescente attraverso la barriera che separa Messico e Stati Uniti.
Il dondolo, sul quale giocano davvero messicani e statunitensi, rappresenta la possibilità di dialogo tra i popoli, al di là di tutti i muri eretti nel corso della storia; dondolando su e giù a seconda di quanti vorranno salirvi, è un simbolo di pace e di equilibrio tra i popoli, proprio nel posto in cui sorge una barriera e una divisione.
Sono stata chiamata come Specialista in Storia dell’Arte Contemporanea per l’edizione quinquennale “Dell’Arte”, il nuovo progetto editoriale scientifico di De Agostini Scuola a firma di Ernesto Luciano Francalanci. La mia rilettura critica ha riguardato l’Ottocento, il Novecento e le Ultime tendenze delle Arti Visive.
Qui il video di presentazione del progetto:
Qui la scheda del progetto: