Intervista alla prima relatrice delle tre “Conversazioni sull’arte per la scuola di domani” di DeAgostini Scuola.
La pandemia ci ha insegnato a non dare nulla per scontato: nemmeno la possibilità di trascorrere un pomeriggio al museo, di visitare una mostra in pausa pranzo, né tantomeno di programmare una uscita didattica in quel sito archeologico o a quella Biennale d’arte.
Chiusi praticamente “dalla prima ondata”, i musei e in generale gli spazi deputati alla conservazione, all’esposizione e alla divulgazione delle opere e dei linguaggi dell’arte sono tra le realtà più colpite dall’emergenza sanitaria internazionale: anche, soprattutto nel nostro Paese.
Partendo da questa constatazione, DeAgostini Scuola ha significativamente deciso di aprire il ciclo di tre webinar gratuiti per i docenti di arte della scuola secondaria di secondo grado con un seminario tenuto da chi di musei ne sa molto, e ha soprattutto le idee ben chiare sulla funzione che, soprattutto oggi, essi devono avere: Anna Chiara Cimoli.
Storica dell’arte specializzata in Museologia all’Ecole du Louvre di Parigi, docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano, si occupa di museologia sociale sia come ricercatrice sia come progettista, nel corso dell’intervista che ci ha concesso ha utilizzato parole importanti che proprio di questi tempi stanno tornando all’attenzione degli studiosi e degli operatori culturali: “politica“, “museologia sociale“, “rinascimento“.
Termini che bene evidenziano il valore da dare, e chiedere all’arte e alle istituzioni d’arte, in un contesto sociale, economico, relazionale completamente stravolto: quello di tornare ad essere fonte di ispirazione per l’educazione civile, la consapevolezza comunitaria e la responsabilità condivisa.
Senza se e senza ma.
Di questo è fermamente convinta Anna Chiara Cimoli, quando ci incalza con queste riflessioni: “Il museo è, secondo la definizione ICOM del 2007, un luogo vocato allo studio e alla conservazione delle opere dell’uomo, esposte “per scopi di studio, educazione e diletto”. Oggi però, in un mondo attraversato da rivendicazioni legate a identità culturale, genere, giustizia sociale, questa definizione sembra non bastare più. Che cosa sta diventando il museo?
È giusto che si faccia interprete di quelle spinte a una rappresentazione più equa e inclusiva? E come può farlo?”
Per rispondervi, le domande gliele abbiamo fatte noi.
Ilaria Bignotti: Cosa significa Museologia sociale e che valore ha oggi questo ambito di studi?
Anna Chiara Cimoli: Io penso che la museologia sia sempre sociale, come lo sono la storia dell’arte, la letteratura, il teatro, e così via. Tuttavia ha senso, oggi, parlare di “museologia sociale” proprio per evidenziare la componente attiva e reattiva della disciplina, un suo “rinascimento”. Il valore di questo ambito di studi consiste proprio nella presa di coscienza del fatto che il ruolo degli operatori culturali è sempre politico. Mi sembra fondamentale comunicare con consapevolezza questa dimensione alle persone giovani e in formazione, che spesso sono disamorate o spaventate dalla politica. Sarebbe bello che noi storici dell’arte facessimo innamorare i nostri studenti della politica, della dimensione civile del nostro fare, aiutarli a connettere i puntini di una mappa complessa, insomma far baluginare la possibilità di una agency, un ruolo attivo, nella piccola o nella grande scala. I ragazzi delle scuole superiori, nella mia esperienza, sono molto sensibili ai temi della giustizia sociale, della sostenibilità, dell’etica.
I.B. : Esiste un’arte veramente relazionale e partecipata?
A.C.C.: Certo, esiste da moltissimi anni, forse da sempre, da prima che diventasse uno slogan o una formula magica. Allargando lo sguardo e il metodo di indagine, penso alle stampe che descrivono l’abbattimento delle statue da parte dei sanculotti durante la rivoluzione francese, ricoverate da Alexandre Lenoir al Musée des Monuments Français. Alla luce dell’abbattimento delle statue sull’onda delle proteste di Black Lives Matter, si può dire che la storia è sempre contemporanea e che la storia dell’arte è sempre relazionale e partecipata, per affinità o per contrasto: la mediazione (possiamo anche parlare di educazione o insegnamento a seconda degli ambiti) ha la funzione di riempire i silenzi, favorire l’interpretazione e assicurare che il patrimonio diventi bagaglio etico di ogni persona, uno scheletro che sostiene e rafforza nell’interpretazione del mondo.
I.B.: Quali sono gli aspetti che i musei d’arte odierni a suo dire dovrebbero potenziare?
A.C.C.: Ce ne sono molti, ma io credo che la competenza relativa al dialogo, alla mediazione dei conflitti, al debating sia molto importante, sia per gli adolescenti che per gli adulti.
I.B.: Quanto è importante nella sua ricerca l’ascolto delle esigenze del pubblico?
A.C.C.: È una bella domanda; la risposta sarebbe lunga e complessa. In sintesi, credo che si debba ascoltare, come dovere morale e professionale; e poi trasformare le risposte con gli strumenti della professione e delle competenze, da affilare in continuazione rispetto agli accadimenti del mondo. La fiducia stabilita nel tempo, spesso con fatica e andirivieni complessi nel riconoscimento reciproco, è la base su cui si innesta il processo; in assenza di quella, anche l’ascolto diventa superfluo. Ma l’ascolto senza capacità trasformative e interpretative non basta: non deve essere una panacea che mette la coscienza in pace. La capacità di trasformazione e di interpretazione nasce da tanti anni di esperienza, di ricerca di campo, di “artigianato”, e ha un enorme valore, spesso non abbastanza riconosciuto.